VII

Dal 1753 al 1758

La locandiera rappresenta la conclusione alta di una fase dell’arte goldoniana e nella stanchezza che le succede (quando il Goldoni ripete lo schema della commedia riuscita nelle forme esteriori ed esagerate della Donna vendicativa o si riposa in commedie senza impegno come le Donne curiose, Il contrattempo e quei Mercatanti che pure ci interessano per l’attenzione di simpatia del Goldoni alla «flemma» olandese) il Goldoni – che pur continuò, ma senza vera ispirazione, a scrivere di quando in quando commedie in prosa e piú sul tipo del periodo precedente – cedette alla tentazione di entrare in gara con il Chiari sul terreno della commedia o tragicommedia romanzesca (intanto aveva lasciato il teatro S. Angelo ed il Medebachh per il teatro di S. Luca), seguendo i gusti variabili del pubblico (le donne particolarmente erano «chiariste») in un momento di singolare passione per i motivi del sentimentalismo romanzesco e dell’avventura esotica: passione che il mestierante Chiari aveva soddisfatto con raffazzonamenti, per noi insopportabili, di romanzi e drammi inglesi e francesi diluiti in martelliani languidi e patetici, sottoprodotti provinciali del gusto europeo in forme volgarizzate e commerciali.

Il Goldoni, che sino allora aveva condotto la gara sul piano da lui scelto secondo le parole del finale del Prologo apologetico alla Vedova scaltra (opponendo cioè alle critiche dell’avversario commedie sue e sempre piú sue), ora vuol provare a riconquistare il pubblico scendendo sul terreno del rivale. Ed ecco nel ’53 e negli anni successivi la lunga serie delle tragedie romanzesche in versi: la trilogia persiana (La sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ispahan), La bella selvaggia, La peruviana, La bella giorgiana, La dalmatina, in cui l’autore dà sfogo alla sua curiosità (ed alla curiosità del pubblico) per ambienti lontani, per costumi diversi e pur testimonianti una comune umanità, e fa un nuovo esercizio fra teatro e letteratura in cui minore è la sua tensione alla vitalità del personaggio a favore di una ricerca maggiore di generale atmosfera dell’opera e minore è la stessa attenzione ai comici, agli attori, il cui stimolo vivo aveva cosí bene utilizzato nelle commedie precedenti.

E ciò non avviene solo nelle tragedie romanzesche (assai limitate nella loro discorsività dolciastra e nelle loro trame romanzesche assai diluite, con concessioni spesso allo spettacolare: e non parliamo poi delle tragedie romanzesche a sfondo classico come l’Enea nel Lazio e Gli amori di Alessandro Magno, in cui la gara con il Chiari lo conduce a soggetti cosí eterogenei dai suoi veri interessi), ma anche in quelle commedie in versi, di tipo piú letterario ed accademico, da teatrino per cavalieri e dame, che rappresentano una delle altre direzioni di questo periodo poco ispirato e piú dispersivo e pure utile al successivo sviluppo goldoniano.

La gara con il Chiari e l’esempio del teatro piú letterario lo distolsero dalla sua via piú genuina, e d’altra parte è chiaro che se questa concessione ad altri modi corrisponde ad un periodo di stanchezza, di minore ricchezza ispirativa, si deve anche valutare l’importanza di queste esperienze nello svolgimento dell’arte goldoniana. Infatti, se in queste tragedie e commedie si deve constatare una diminuzione della tensione intima dei personaggi e delle situazioni (e lo si può controllare anche nella commedia in prosa e piú vicina al vecchio schema divenuto tanto esteriore e debole), un ritmo generale piú lento ed indugiante, una maggiore concessione a descrizioni pittoresche piú esterne ed ornamentali, un prevalere della discorsività sull’azione (questi personaggi si descrivono e si analizzano e si esprimono in discorsi eloquenti ed abbondanti), in queste qualità negative si devono considerare anche importanti elementi di esercizio utile per un approfondimento dell’esperienza psicologica e piú dell’esperienza di mezzi espressivi piú affinati e complessi che il Goldoni utilizzerà quando un nuovo impeto creativo darà vita ai suoi capolavori.

E si consideri anzitutto la larga esperienza di ambienti esotici in coerenza con l’interesse del Goldoni specie per l’occidente europeo (Il filosofo inglese, Il medico olandese), di ambienti nobiliari o di alta e pretenziosa borghesia con una piú precisa attenzione al mondo dei cicisbei e della galanteria settecentesca ironizzati, usufruiti nei loro suggerimenti di eleganza e caricatura, studiati nelle loro misure frivole e squisite. E nel netto prevalere della parola, della discorsività, che rende tediosa in generale la lettura delle opere di questo periodo e smorza e rallenta l’azione comica, si consideri l’importante esercizio che il Goldoni poté farvi nell’impressione attenta di sfumature psicologiche, nelle prove di impasto di toni ironici e teneri, nella stilizzazione piú elegante di figurine del frivolo mondo della galanteria e di un ritmo che a volte davvero diviene minuettistico[1]: specie appunto in quelle commedie con cui il Goldoni mirava a soddisfare gli «spiriti piú seriosi e piú delicati»[2], i letterati cioè di discendenza maffeiana, i commediografi come l’Albergati Capacelli.

Certo in uno studio minuzioso sulle opere di questo periodo si potrebbe ben misurare, nella generale debolezza ispirativa e nella loro sostanziale natura di esercizio, l’acquisto che il Goldoni vi ha fatto soprattutto in una piú ricca disponibilità di mezzi espressivi e di analisi psicologica.

Cosí, fra la figura piú energica e piú lucida di Mirandolina e quella piú sinuosa, contrastante e complessa di Eugenia negli Innamorati, e fra la prosa precedente e la prosa poetica delle grandi commedie del nuovo periodo, ci sono le esperienze importanti del ’53-58. Né d’altra parte si dimentichi nella abbondantissima produzione di quegli anni la continuazione, sia pure meno ispirata e piú dispersiva, della commedia in prosa con ricerca di maggiore centralità ed energia di personaggi e situazioni (rispetto alle commedie in versi). E in queste come in quelle si può, se non altro, notare la esperienza replicata di temi che avranno utilizzazione e realizzazione superiore nel nuovo periodo di vera ispirazione creativa: come ad esempio il tema della villeggiatura (I malcontenti, La villeggiatura).

Ma in questi anni non mancano neppure quelle «tabernarie» che, in mezzo alle esperienze piú letterarie, rappresentano i risultati piú felici e le indicazioni piú interessanti in relazione al prossimo predominio del mondo veneziano come materia poetica del teatro goldoniano.

E meglio delle Donne de casa soa o anche delle Morbinose e dei Morbinosi (in cui la scena veneziana e il dialetto veneziano sono commisurati ad un movimento tutto sommato piú letterario e convenzionale[3]) le vere e proprie «tabernarie» si impongono al nostro interesse: Le massere e Il campiello, accomunate da una ispirazione che nella seconda si realizza interamente laddove nella prima vive soprattutto nella apertura e nel primo muoversi dell’azione, mentre poi si illanguidisce e disperde in una libertà poco organizzata di incontri di voci ben diversamente ed elasticamente accordate in quel bellissimo coro che si forma nel Campiello. Comunque anche nelle Massere la disposizione poetica è ben evidente nell’inizio della commedia, in cui di colpo viene creata un’atmosfera di realismo idillico, di poesia delle voci della vita comune nel pigro e lieto aprirsi della giornata di umile gente: il garzone del fornaio rompe l’aria gelida dell’alba con il fischio con cui ogni mattina chiama alle finestre le «massere» perché gli diano il pane da infornare.

E, come sempre, le voci delle massere si seguono e si intrecciano a quella del giovane garzone, mescolando all’eco del freddo insonnolito i primi e piú limpidi accenni del loro tema di pettegolezzi, di piccole brame, di gelosie, di facile letizia. Né si tratta di entusiasmarsi alla «verità» naturalistica e fonografica di quel fischio, di quell’accenno particolare (il metro scaduto della valutazione dell’ultimo Ottocento), bensí di accertare in questa disposizione di attenzione alla realtà piú semplice ed istintiva, piú che una curiosità ed una volontà di riproduzione minuta ed accurata, un impegno poetico e la forza artistica di dare a quei particolari ben reali, ricreati in una dimensione organica e nuova, un loro accento lirico, una loro intensa e densa voce musicale.

Giustamente per l’inizio del Campiello un raffinato scrittore del nostro tempo, Giuseppe Raimondi, poté parlare di «verità e incanto da idillio greco e da mimo greco» e meglio per tutta l’apertura della commedia di «toni di serenata mozartiana»[4]. Questi termini di paragone piú o meno storici o plausibili hanno infatti il valore di condurre il lettore dalla ammirazione di un piccolo realismo borghese alla considerazione del carattere poetico, della limpidezza melodica di quell’inizio come voce lirica di un mondo corale e vivo nel suo accordo, nelle sue tempeste presto placate, nella sua ispirazione di letizia e di vitalità. In quella scena (il campiello con le sue finestre da cui le voci fresche, finemente individuate su di un fondo omogeneo si levano una dopo l’altra e si accordano sempre piú armonicamente) il grido di Zorzetto che viene ad invitare le donne a giocare alla Venturina, diviene un vero canto e su questo inizio cosí puro e fresco il poeta imposta il tono della sua commedia:

Zorzetto:

Putte, chi mette al lotto?

Xe qua la Venturina.[5]

Son vegnú de mattina.

Semo d’inverno, fora de stagion;

Ma za de carneval tutto par bon.

Via, no ve fe pregar.

Putte, chi zoga al lotto?

Chi vien a comandar?

Lucietta:

(sull’altana della sua casa)

Zorzetto, son qua mi; tolè el mio bezzo.[6]

(getta il bezzo)

Zorzetto:

Brava, siora Lucietta.

Za che la prima sè, comandè vu.

Lucietta:

Comando per el piú.

Se gh’avesse fortuna!

Zorzetto:

Vadagnerè senz’altro. Su per una.

Sie[7] bezzi amanca.

Gnese:

Zorzi. (dal suo poggiuolo)

Zorzetto:

Comandè, siora Gnese.

Gnese:

Tolè el mio bezzo.

Zorzetto:

Via, buttèlo zo.

Gnese:

Se vadagnasse almanco! (getta il bezzo)

Zorzetto:

Su per do.

Cinque bezzi amanca.

Orsola:

Oe matto! ti ti xe? (dal suo poggiuolo)

Zorzetto:

Anca vu, siora mare.

Orsola:

Quel che ti vol. Tiò el bezzo. (getta il bezzo)[8]

Su questo splendido inizio il poeta imposta il tono corale della sua commedia, il ritmo alacre e lieto di un’azione di per sé di scarso rilievo (il matrimonio della fatua e pur incantevole Gasparina e le varie pacificazioni fra i semplici personaggi popolari prima divisi da liti e discordie di breve durata), ma – pur fra dispersioni e sfrangiature che piú non si troveranno nella vigorosa organicità delle Baruffe chiozzotte, simili e pur tanto superiori a questa prima impostazione di «tabernaria» corale e popolare – cosí poetico nel suo «movimento perpetuo» di voci e di affetti commisurati a quel superiore effetto di ritmo vitale (accentuato nella sua ritmicità, ma insieme un po’ limitato nelle piú concrete possibilità espressive dall’uso insolito dei versi), che culmina nel coro del brindisi nuziale nella locanda per rifrangersi ancora, come piú mosso e vario, nella moltiplicazione delle brevi divisioni sceniche, negli ultimi battibecchi caparbi, su cui cala l’autorevole e benevola voce del cavaliere «foresto» che impone, come una piú matura ragione, la pacificazione generale invitando tutti alla cena di nozze, alla notte in festa prima della partenza insieme a Gasparina, da Venezia e dal campiello di cui la nuova sposa, finalmente intenerita, avverte l’attrazione come di un piccolo mondo familiare, caldo e consueto, amato proprio nel suo limite, nella sua disadorna schiettezza di vita:

Cara la mia Venezia,

me dezpiazerà certo de lazzarla;

ma prima de andar via, vói zaludarla.

Bondí, Venezia cara,

bondí, Venezia mia,

veneziani zioria.[9]

Bondí, caro Campiello:

no dirò che ti zia brutto, né bello.

Ze brutto ti zé stà, mi me dezpiaze:

no zè bel quel ch’è bel, ma quel che piaze.[10]

Il campiello è del ’55: altre esperienze ed un maggiore approfondimento della propria ispirazione porteranno poi il Goldoni a superare quello che nel Campiello vi era ancora di troppo pittoresco e dispersivo e a questa sintesi poetica piú essenziale sarà necessaria ancora la prova di una commedia cosí alta e ispirata come Gli innamorati.


1 Si vedano in proposito, come particolarmente indicative, commedie (fra satira della galanteria e lievi caricature elegantemente stilizzate) quali Il festino, Il cavalier Giocondo, La scuola di ballo: e particolarmente l’Atto v della prima, le prime scene del i Atto della seconda, e l’inizio – a ritmo di ballo – della terza. E per un minimo indizio di come nella discorsività dei personaggi di questo periodo (alla lunga cosí dolciastra e stucchevole) il Goldoni venisse esplorando, sia pure in modi di convenzione letteraria, zone a lui meno note del cuore femminile, si leggano, nella Donna stravagante, alcuni dei lunghi monologhi di Donna Lavinia in versi d’intonazione sognante come:

Pareami in bel giardino seder vicino al fonte,

in cui l’acque s’udivano precipitar dal monte;

e il mormorio dell’onde e degli augelli il canto

diviso il cor teneami tra la letizia e il pianto.

Pareami all’aure, ai tronchi narrare il mio cordoglio...

2 Pref. alle Baruffe, in Opere, ed. cit., vol. VIII, Milano 1955, p. 130.

3 Eppure anche in una commedia come Le morbinose (e nella sua riduzione in prosa italiana: Le donne di buon umore), cosí poco intensa e priva di veri personaggi, si può – specie nel rilievo raffinato di giuoco scenico datole nella rappresentazione eccellente della «Compagnia dei giovani» – notare quale offerta di spettacolo sia ritrovabile anche in commedie goldoniane nettamente minori: si pensi soprattutto alla incantevole magica scena del falso pranzo e delle prestazioni mimiche del cavaliere Odoardo. Fra i contributi di nuova vita teatrale dell’opera goldoniana si ricordino almeno la rappresentazione della Locandiera nella regia di Visconti e quella, nella regia di Strehler, dell’Arlecchino servitore di due padroni e delle Baruffe chiozzotte.

4 G. Raimondi, Giuseppe in Italia, Milano 1949, pp. 51-52.

5 Nella Prefazione il Goldoni stesso spiega che cos’è il gioco della Venturina: «Usasi nell’estate in queste piazzette un certo gioco che chiamasi il Lotto della Venturina, con cui si cava la grazia a similitudine del Biribis, con alcune pallottole, e il piú o il meno guadagna, secondo è stato prima deciso, se il piú od il meno dee guadagnare. Il premio di questo lotto suol consistere per lo piú in pezzi di maiolica di poco prezzo, ed è un divertimento che chiama alle finestre o alla strada la maggior parte del vicinato» (in Opere, ed. cit., vol. vi, Milano 1943, pp. 175-176).

6 bezzo: quattrino, piccola moneta da due centesimi.

7 Sie: sei.

8 Il campiello, Atto I, sc. 1.

9 zioria: «sioria», signoria (saluto usuale a Venezia). Gasparina ha un difetto di pronuncia (z per s): uno di quei tic caratterizzanti che qui rimangono piú pittoreschi e bizzarri e che nel linguaggio frettoloso e abbreviato di paron Fortunato delle Baruffe diverranno un perfetto mezzo espressivo di un personaggio comico, frettoloso, confuso nella sua ansia di attività e d’intervento. Come, rispetto alle Baruffe, la presenza del «cavaliere» anticipa (ma con minore complessità e forza) quella del «cogitore» tanto piú poeticamente funzionale nella verifica della comicità e della schiettezza dei personaggi popolari da parte di una condizione culturale e sociale in certo senso piú adulta, ma insieme meno fervidamente capace di vita immediata e personale-corale.

10 Il campiello, Atto v, scena ultima.